Un mese dopo, appare ancora più chiaro quanto sia scomoda l’eredità di Sergio Marchionne. E lo diventa ancora di più oggi, alla luce di un mercato dell’automobile che sta cambiando, e che in generale ha obbligato tutti i costruttori a rivedere al ribasso i target fissati per quest’anno.
Le barriere alzate dagli Stati Uniti contro l’import di acciaio e alluminio dall’Europa, che fanno lievitare il costo finale per chi produce auto negli Usa si sommano alle minacce sempre più reali di Donald Trump sui possibili dazi imposti all’importazione di veicoli e componenti dall’Europa: tassare del 25% ogni vettura proveniente dalla Ue sconvolgerebbe il mercato. E per Fca in particolare, lo scenario futuro sarebbe (ma in realtà già lo è) ancora più ricco di dubbi.
La scomparsa improvvisa del suo leader, che garantiva solidità di visioni e di programmi, ha consegnato nella mani del successore un’azienda sana e competitiva. Ma quella del nuovo amministratore delegato del Gruppo, Mike Manley – che sarà confermato ufficialmente nel ruolo dall’assembrea dei soci del 7 settembre ad Amsterdam – in realtà potrebbe essere stata una soluzione d’emergenza. Sono in molti a ritenere infatti che la discussione tra Marchionne e John Elkann sulla scelta del manager giusto per un ruolo tanto delicato fosse ancora in atto, e che solo l’improvviso dramma di quei giorni abbia spinto la proprietà a nominare d’urgenza Mike Manley. Il quale ha già incontrato il presidente Trump in queste settimane e dovrà ora affrontare una doppia sfida: industriale da una parte e geopolitica dall’altra.
La metamorfosi di Fca che sta progressivamente privilegiando i suoi marchi “premium” – con Jeep a fare da traino – a discapito di quelli generalisti dovrebbe anzi intensificarsi, così come il forte tentativo di riposizionamento del brand nel mercato attualmente più prezioso, quello cinese.
In questo Fca parte svantaggiata per gli enormi ritardi accumulati sull’elettrico, ritardi che i 9 miliardi di euro di investimenti nei prossimi cinque anni promessi dall’ultimo piano industriale firmato da Marchionne non basteranno certo, da soli, a colmare.
Altro problema, l’eccesso di capacità produttiva negli impianti e l’elevata forza lavoro in Europa. Lo ha sottolineato nei giorni scorsi anche il Wall Street Journal, ribadendo che il nostro continente assorbe il 36% dei dipendenti del Gruppo ma rende solo un decimo dei profitti. Che Fca avrebbe bisogno di una fusione per migliorare la redditività in Europa e un massiccio sbarco in Cina è un’evidenza ormai innegabile, come le voci sempre più ricorrenti di possibili trattative in questo senso con Hyundai.
Prima di allora ci sarà una data importante da scollinare per il Gruppo, quella del 27 agosto: è attesa infatti per lunedi dagli Stati Uniti la sentenza relativa ad un presunto tentativo di corruzione per 4,5 milioni di dollari di cui si sarebbero macchiati alcuni manager di Fca per comprare la benevolenza del sindacato americano (Uaw) in una trattativa che aveva l’obiettivo di diminuire il costo del lavoro per l’azienda. Sia Uaw che Fca si ritengono parti lese nella vicenda, che a loro dire avrebbe riguardato solo alcuni singoli manager e sindacalisti, ma le conseguenze a livello di immagine e l’eventuale forte sanzione che potrebbe arrivare sono tutte da verificare.